lunedì, ottobre 16, 2006

AUTOIDENTITA'

Suono il campanello, Amélie mi fa gentilmente accomodare nella camera da letto dei suoi genitori. Poco dopo mi raggiungono: Zadie, Chuck, Maurizio e Abdul.
E’ da ormai tre settimane che ci troviamo tutti i giovedì per cena e mai nessuno di noi è stato lì.
Amélie non ci ha spiegato molto, solo di aspettare la cena, di aspettare che ci venisse a chiamare, di aspettare lì. Se conosci Amélie sai che sta tramando qualcosa. I miei compagni di attesa non sono particolarmente loquaci, ci conosciamo da poco, sono gli “amici del giovedì”. Un profumo strano di cibo filtra da sotto la porta chiusa fino ad arrivare alle nostre narici. Ammazziamo il tempo particolarmente bene curiosando nell’intimità della sua famiglia, ricostruiamo vite intere da poche immagini. Senti la presenza di un luogo che conosci. Hai la sensazione di assistere ad un film già visto a cui sono state cambiate molte scene. Se non fosse così, quel luogo potrebbe appartenermi. Non è così.
Solitamente alla fine di queste cene me ne esco con la teoria che le nostre origini, le nostre diversità, le nostre etnie, le differenze viste negli altri, rafforzano in me la consapevolezza di una identità, di una appartenenza ad un sistema nazionale, caratteriale, comportamentale. Un tipo di relazione che non ho con nessuno in quella stanza. Diversi, ma accomunati da Amélie, da un suo piano. Lei ha sempre un piano.
Steso nel letto, alla sinistra del soprabito di Abdul , osservo la storia raccontata dalla “camera di accondiscendente prigionia” poi le storie che si muovono intorno a me, dotate di cuore e cervello.
La mia prima impressione spesso non sbaglia. I miei “amici del giovedì” non sono affatto amici, sono l’emblema stesso dei non-amici. Scelti accuratamente per non avere relazioni, per essere distanti ma simili. Tutti mangiano, ma quelle cene sembravano sempre più una messa in scena. Noi recitavamo un copione mai letto, suggerito, indotto. La padrona di casa parlava sempre molto poco. Sono ormai le 21, i profumi suggeriscono un’imminente entrata in scena. Le luci si stanno scaldando e con loro i protagonisti.
Mi diverto sempre molto nel cercare di indovinare la trama della serata… raramente/mai indovino perché, (confessione di Amélie:) neanche lei stessa può prevederla. Il suo scopo (capisco solo ora) è quello di proporre “il contorno”, creare i presupposti per… Un controllo subdolo ma stupendamente contemporaneo.
Perso nei pensieri non mi rendo conto di fissare Zadie, la quale sorride a me o per la musica di cui non mi ero accorto fino ad ora. Musica indecifrabile, fatta-apposta-per-non-essere-sentita, sottofondo… filodiffusione! Indizio prezioso. Mi sento un po’ meglio. Ho la sensazione di sentirmi più vicino ai non-amici. Il pensiero comune rivolto a quella musica priva di identità ci accomuna in qualche modo? Si.
Amélie ci ordina gentilmente di affluire in sala da pranzo. Ci siamo! è il mio momento.
Percorriamo ordinatamente il corridoio. La cena è già servita nei piatti, ho fame. Ogni posto è diverso per: sedia, tovaglia, bicchiere (anche per il liquido contenuto), piatto (anche per il cibo contenuto), forchetta, coltello, tovagliolo, tutto. Sussurro la soluzione dell’enigma nell’orecchio di Amélie e mi accingo a scegliere un posto.
Sei costretto a ragionare velocemente per decidere cosa è meglio per te. Il fattore che reputo più importante è naturalmente il cibo e la bevanda, per altri non è così. Esiste il fattore tempo/spazio. Vedo un piatto di canederli e mi ci siedo di fronte.
Non sono razionale, non credo di esserlo, il tempo lo è. Mi rendo conto che, con il mio set di posate composto da mini-grattugia e forchetta di plastica con un solo dente, sarà difficile gustare il piatto fumante. Le scelte sono state fatte. La padrona si siede nell’ultimo posto disponibile: “Buon Appetito” non parlerà più. Zadie e Abdul concludono qualche scambio lo stesso fanno Chuck e Maurizio. Io aspetto, aspetto, guardo e mi rendo conto che nessun scambio di piatti, sedie, posate o tovaglioli porta ad un significativo miglioramento pratico. Capisco presto che Maurizio non è interessato all’utilità, ma alla concettualità. Io decido di non stare al gioco, quel che mi è capitato me lo tengo.
La sedia è molto comoda, ma troppo bassa. Chi ha scambiato qualcosa ne approfitta per avviare brevi conversazioni. Non ne capisco il motivo (anzi lo capisco), parlano di origini, di nazioni, di tradizioni, etc etc. Io non sono mai stato troppo bravo con le parole, ma capisco le persone, e in quel caso il dialogo era superficiale come questo formaggio. Tutti radicati, sradicati e ri-radicati, ri-sradicati per piantare radici ben diverse dalle prime, ed è facile capirlo. Si parla di religione come di tennis, di appartenenza come di noccioline… si! non c’è appartenenza ad un luogo! Ma perché tutti mi fissano, forse non l’ho solo pensato. Quel sussurro è stato udito, la conversazione era terminata già da tempo ed io avevo ragione. Il vuoto finisce prima.
Ma allora la diversità crea rigetto, unione/similitudine/raffronto, poi indifferenza? Forse odio? Mentre pensavo qualcuno deve aver alzato la voce. Siamo alle solite, ma questa volta non farò come Amélie, aggiungerò un elemento ordinante.
Mi alzo in piedi con il beccherie di brandy in mano. Non pensavo fosse così difficile mantenere l’equilibrio su una sedia così eccessivamente imbottita.
Apro il sipario ed inizio con lucidità e pazienza a descrivere il mio carattere, mi sorprendo di quanto possa essere esaustivo. Il monologo dura una dozzina di minuti, sentivo sulla pelle sguardi dubbiosi. Il primo passo verso la rinascita è stato fatto, ora siamo solo 5 esseri. Solo noi.

Questo racconto è da considerarsi come un metalogo.