venerdì, gennaio 12, 2007

AUTOIDENTITA' - CAP. 1 - Passeggiata in stazione


Qui non c’è storia, non c’è il segno della vita. Qui i muri possono vederti, possono sentirti.
Le calde e lunghe mattine estive sono il periodo migliore per passeggiare. Ci sono molti posti in cui non sono stato ed altri in cui sono stato più volte. Vado in un posto per vederlo. Vado in un posto per vedere le persone che lo popolano. Vado in un posto per fare. Ma spesso vado in un posto solo per andarmene. La taglio corta, l’idea consisteva nel fare un giretto in stazione per stare, per vedere. Lo sforzo era di avere un approccio diverso al nonluogo, lo stesso approccio che avrei per un museo o per una piazza.
La stazione scelta è quella di Faenza (RA), la mia città natale. Il mezzo che mi porta alla meta è l’automobile. Il parcheggio in quella zona è sempre difficoltoso.
Dopo un breve tragitto in auto, un medio/breve tragitto a piedi capisco che mi sto avvicinando ad un nonluogo. Numerose persone con bagagli, numerosi senegalesi, giovani viaggiatori, tassisti e polizia sono indizi ben chiari.
Mi avvicino all’entrata con la sensazione di fare qualcosa di sbagliato di sovversivo, non so, come andare al ristorante solo per sedere. Da bravo “turista” sono armato di macchina fotografica digitale e curiosità. Certo! In quel posto sono già stato, ma ora è tutto diverso, il mio sguardo è diverso, il motivo lo è.
Un strana ed incredibile sensazione di imbarazzo mi coglie nel momento in cui, camminando sulle strisce pedonali, decido di estrarre la macchina fotografica dalla custodia.
La fotografia (o una sua strana ed irreale rappresentazione su video) mi da un potere che sento inadeguato al nonluogo. Come se dovessi fotografare di nascosto uno sconosciuto, come se fosse vietato. Identità che non ci è concesso vedere/violare. Ora so di poter congelare piccole porzioni di tempo e realtà.
L’architettura di derivazione fascista è quella “standard” di molte altre stazioni in Romagna, nella facciata una scritta blu, affiancata al logo delle ferrovie dello stato, ci ricorda dove siamo. In fondo alla strada, di fronte alla palazzina troviamo un rotonda, punto di ritorno obbligato, punto di partenza obbligato. L’indicazione stradale è chiara, qui non è concesso, non è previsto stare, solo aspettare il momento giusto per andare. Muoversi!
Un secondo prima di entrare vedo arrivare un piccolo bus, lo schermo sopra il lunotto anteriore indica la direzione (via Orto Bertoni), si ferma per qualche secondo, le porte aprendosi ti invitano a salire, questo è il suo linguaggio. Con non poco imbarazzo immortalo il tutto, sponsor ed indicazioni per disabili comprese. Su questi mezzi si ha la sensazione che su ogni cosa ci sia apposto il suo nome, sottotitoli della realtà, modelli di comportamento.
L’offerta di trasporti offre anche un servizio taxi. Si intuisce subito dalla insegna luminosa e dalla vista di un gruppetto di tre persone sedute su sedie sdraio, armate di quotidiani e camice floreali di cattivo gusto.
Non guardo le indicazioni, ma la gente. Mi rendo conto dagli sguardi di avere un comportamento sospetto, ricordo di aver pensato che qualcuno potesse aver pensato che fossi stato li per studiare il luogo in vista di un attentato o di una rapina. Ero a disagio.
Mi faccio vedere dalla fotocellula, la porta si apre, sono dentro. Vengo accolto da due schermi (partenze e arrivi) i quali hanno preciso scopo di indirizzarmi verso un binario, verso un’altra stazione. Due biglietterie su quattro sono aperte e ben segnalate, ma oggi tutto ciò non mi interessa.
Incuriosito dai media portatori di informazioni mi dedico ad una breve ricerca. Biglietterie automatiche con cui dialogare, orologi, segnaletica orizzontale, cartelli informativi, video sorveglianza, altoparlanti da ascoltare, tabelle con orari dei treni, telefoni pubblici, telefoni di servizio. Oggetti comunicanti.
Ma allora il nonluogo diventa tale grazie ad una sua capacità di dialogo? È ovvio pensare alla stazione come ad una creatura architettonica fornita di sensi umani? E che tipo di contatti sono? Che relazioni si creano?
Una interfaccia architettonica si pone tra uomo e servizio, instaura un dialogo freddo e a senso unico, una relazione fatta di comandi ed imperativi che devono essere rispettati, anche per legge. Il nonluogo non discute, sussurra ordini ed informazioni. Mi parla con altoparlanti, mi vede con telecamere, comunica con segni, con personale o interfacce. Sistemi comunicanti che rimangono antiquati/legati ad un concetto di imposizione superiore e non come i più recenti sistemi operativi, i quali programmatori hanno ben capito l’importanza di creare un rapporto di scambio, l’importanza di umanizzare il rapporto, di creare legami.
Ti comunica che fare, dove andare, dove aspettare e quando… e se viaggiando il non sapere ti crea angoscia, credo che in quel caso, non si possa parlare di viaggio ma molto meglio di spostamento fisico.

“…L’Homo communicans trasmette o riceve informazioni e non dubita di quel che egli è; il viaggiatore ideale cerca di esistere, di formarsi, e non saprà mai veramente chi egli è o ciò che egli è.”
Marc Augé in “Rovine e macerie”.

È chiaro che la surmodernità stringendo gli spazi ha perso il gusto del viaggio, l’unico valore è il tempo o meglio la velocità (vedi “Rovine e macerie”, capitolo “Turismo e viaggio, paesaggio e scrittura” di Marc Augé).
Superate le biglietterie mi trovo al fianco della sala d’aspetto, uno spazio ricavato dalla architettura pre-esistente tramite una delimitazione mezzo grandi vetrate. Il vetro riflette l’esterno e lascia vedere l’interno. Ricordo di aver avuto l’impressione di guardare dei prigionieri, isolati ma visibili, presenti ma in vetrina. La solitudine in mostra.
Riguardo le foto e vedo che l’isolamento sembra quasi volontario, indotto. Questi esseri in vetrina così distanti da me, mettono in atto le più comuni tecniche di auto isolamento; si lasciano cuscinetti d’aria (posti a sedere) tra l’uno e l’altro, leggono, ascoltano musica, mangiano o “pastrocchiano” con il cellulare. Ma anche se non fanno nessuna di queste cose è il linguaggio del corpo a tradirli; sguardo basso, mani giunte, gambe incrociate e spalle strette.
Soli soli, o semplicemente/onestamente immagini di se stessi, individui.
Come scrive M. Augé nei suoi “nonluoghi” se “…Non c’è più analisi sociale che possa tralasciare gli individui, né analisi degli individui che possa ignorare gli spazi attraverso i quali essi transitano…” allora è facile capire la crescente importanza di quella che ho chiamato autoidentità (identità personale, singola). Una conferma importante alle mie tesi è da ricercarsi nel mondo della Public Art o dell’arte contemporanea in generale. Qui gli artisti hanno smesso da tempo nell’organizzarsi in movimenti, ognuno ha sviluppato un proprio linguaggio, una propria identità artistica autonoma. Andamento che a mio parere giova al mondo dell’arte proprio perché consente, anche nel confronto, una maggiore libertà, chiarezza ed onestà intellettuale. In definitiva solitudine generatrice di autoidentità.